martedì 24 gennaio 2012

San Paolo: il santo dei serpenti

Chi non ha mai sentito parlare dell’Apostolo delle genti, a lui si deve la cristianizzazione di tutto il mondo allora conosciuto, da oriente ad occidente non c’è angolo dove lui non abbia messo piede. È uno dei pochi santi ad avere ben due festività: il 25 gennaio si ricorda la sua conversione sulla via di Damasco, mentre il 29 giugno ricorre, insieme all’apostolo Pietro, la commemorazione del suo martirio.
Il nome ebraico con cui ci viene presentato nella Bibbia era Saulo, anche se a tutti è noto con il nome romano di Paolo, che ereditò dal padre, insieme alla cittadinanza romana, ed usò normalmente dopo la conversione.
Saulo viene dall’ebraico Sha’ûl e significa “Richiesto, desiderato, implorato e ottenuto con la preghiera (da Dio)”, Saul fu uno dei re d’Israele. Il nome Paolo invece deriva dalla parola latina “paulus”, diminutivo di “paucus”, che significa “poco”, “non grande”, “piccolo”. Significa dunque “sono piccolo”, e San Paolo si dice fosse di bassa statura, ma fu soprattutto “piccolo davanti a Dio”.
Uno dei due apostoli più conosciuti al mondo, vanta numerose chiese ed una miriade di raffigurazioni sia pittoriche che scultoree. Fra le scene narranti gli episodi della sua vita primeggia la sua conversione, con caduta da cavallo, mentre si recava nella città di Damasco in cerca dei seguaci della nuova dottrina; celebre una raffigurazione del pittore Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Nelle raffigurazioni della sua conversione è quasi sempre rappresentato in armatura militare e circondato da altri soldati, benché non sia un soldato, tale lo si crede per la sua iniziativa di andare dal sommo sacerdote che lo autorizza a recarsi a Damasco ad arrestare i cristiani e condurli in catene a Gerusalemme. La posa è quella di essere nell’atto di cadere da cavallo o già a terra folgorato dalla luce divina, come raccontato negli Atti degli apostoli al capitolo 9.
Una tradizione a Solarino vuole San Paolo, con la sua spada, uccisore di parecchi cristiani prima della sua conversione. Sul numero vi erano due correnti: l’una affermava che le vittime fossero state 99; l’altra affermava che fossero state 101 e, ad avvalorla, v’era un’espressione messa in bocca al Santo mentre uccideva la sua ultima vittima: «cientu e cienteunu!» (cioè cento e centouno).
A parte le pitture di episodi della sua vita, Paolo è raffigurato principalmente in compagnia di Pietro o da solo, qualche volta insieme con gli altri apostoli. In tutte tiene solitamente un libro nella mano sinistra, mentre con la destra impugna una spada con la punta rivolta a terra.
Elemento comune è la tipica tunica verde con mantello rosso in perfetto stile greco-romano per i civili, Paolo non era un soldato, ma solo un fanatico seguace “delle tradizioni dei padri” (Gal 1,3). Altro elemento caratteristico dell’Apostolo è la barba che lo distingue immediatamente dal capo degli apostoli: mentre Pietro viene sempre raffigurato con una barba bianca di tipo regolare, Paolo si distingue per una barba nera e folta di tipo allungato. Tipica l’espressione locale rivolta a chi ha una tale tipologia di barba: e chi pari, ‘n San Paulu! (e che sembri, un San Paolo!)
I principali attributi iconografici di questo santo sono il libro e la spada, mentre le corone e la palma le troviamo nelle varie decorazioni simboliche ad accompagnare quest’ultima.
La spada e il libro sono infatti i segni che caratterizzano questo santo in quasi tutta l’iconografia.
La spada è il simbolo della potenza che ha un doppio aspetto distruttivo, come portatrice di guerra e di morte, e costruttivo, come difesa e mantenimento della pace. È inoltre un simbolo del Verbo.
Rappresenta il martirio come nell’iconografia di altri santi decapitati, San Paolo fu decapitato quale privilegio spettante ai cittadini romani, ma anche «la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio» (Ef. 6,17) che Paolo annuncia ai gentili, cioè ai popoli di cultura greco-latina, considerati pagani dagli ebrei. Quando viene rappresentato con due spade, la prima allude al suo martirio, la seconda in quanto «spada dello spirito», alla forza della sua fede e alla proclamazione della parola divina.
Il libro è il Vangelo e sta ad indicare l’opera di predicazione di San Paolo, ma in particolare il suo titolo di Apostolo e “Dottore delle genti” (Doctor gentium), appare nell’iconografia degli Apostoli e in quella dei “Dottori della Chiesa” oltre che dei quattro evangelisti (che scrivono sul libro aperto) con riferimento alla trascrizione del Vangelo; lo stesso Paolo è autore di ben 14 lettere ai cristiani.
Abbiamo già trattato della palma quale simbolo del martirio ed anche della corona con riguardo a Santa Lucia, non troveremo mai il santo con la corona in testa né con la palma in mano, semmai saranno gli angeli a reggere corona e palma come nel quadro del Crestadoro. Una peculiarità è nella simbologia presente nella basilica acrense dove sono ben 3 corone a cingere spada e serpente. Rifacendoci alla storia ed alla simbologia di San Sebastiano, che nel santuario di Melilli riporta due corone, si deduce che ci si riferisca alle volte in cui si è subito il martirio.
È certamente da escludere la leggenda dei tre tonfi delle testa mozzata con il sorgere delle relative tre fontane, occorre invece cercare altre sofferenze patite a causa del Vangelo. Potremmo ipotizzare gli altri due episodi nel naufragio di Malta e nella lunga prigionia.
Ed il serpente?, si starà chiedendo qualcuno. Si tratta di un attributo addirittura terziario, in quanto poco ricorrente. Eppure in tre località questo simbolo assurge al ruolo primario, contendendo la scena alla spada e cercando addirittura di offuscarne l’importanza.
Prima è Malta, l’isola in cui è avvenuto il noto episodio (Atti 28): approdati sull’isola dopo un terribile naufragio, vengono accolti dagli indigeni attorno ad un fuoco acceso per riscaldarsi. “Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a un mano.” Tra lo stupore delle persone presenti, “egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male”. Ospite del “primo” dell’isola ne guarì il padre ed anche molta altra gente, convertendoli alla nuova fede. Da quel momento la vipera di malta ha perso il suo veleno, i suoi abitanti ne sono diventati immuni e la sua terra è divenuta antidoto contro i veleni, tanto da essere poi commercializzata presso molti signori che temevano congiure di palazzo.
Altri due luoghi si contendono il patronato paolino e persino la sua visita: si tratta di Solarino e di Palazzolo Acreide, due comuni distanti circa 25 chilometri fra loro. Ciascuno con la sua festa, i suoi devoti ed i suoi ciaràuli. Entrambi festeggiano il Santo due volte l’anno, il 25 gennaio in forma minore e nel periodo estivo in forma solenne: Palazzolo ne festeggia il martirio il 29 giugno, mentre Solarino ne festeggia il patrocinio la prima domenica di agosto.
Feste di grande importanza in passato, tanto da essere citate dall’etnografo Giuseppe Pitré nel suo Feste patronali in Sicilia, hanno tuttavia oggi perso parte della loro imponenza a causa della scomparsa della figura dei ciaràuli che portavano in processione i serpenti. Oggi invece si assiste solo allo scioglimento delle promesse al Santo attraverso il “viaggio scalzo” in processione per le donne e, solo a Palazzolo, alla “spalla nuda” nel portare il fercolo.
La festa di Palazzolo risale al 1600 circa, nella chiesetta di San Paolo, poi di San Domenico adiacente al convento (oggi occupati da una scuola), ove la statua era custodita fino al terremoto del 1690, poi traslata nella chiesa di Santa Sofia, ricostruita e consacrata all’Apostolo.
Di più recente istituzione invece è il comunello di “San Paolo Solarino”, che vanta una chiesa dedicata al grande predicatore con resti risalenti al IV secolo, secondo l’archeologo Paolo Orsi. Inoltre la tradizione locale vuole che Paolo, nei tre giorni di sosta a Siracusa, si sia spinto fino a queste terre in visita ad una comunità cristiana.; una grotta vicina alla suddetta chiesa vi fornì alloggio. E chi può dire che non sia giunto fino a Palazzolo?, sostiene qualche devoto acrense.
Certa è, in entrambi gli agglomerati, in tempi passati, la presenza di manodopera maltese che può spiegare le caratteristiche tipicamente maltesi del culto, prima fra tutte la simbologia del serpente e la presenza di ciaràuli, persone che hanno ricevuto dal Santo il dono di maneggiare i serpenti senza esserne morsi, ma soprattutto quello di curare i morsi di animali velenosi attraverso l’applicazione sulla parte lesa della loro saliva accompagnata o meno dalla recita di una preghiera segreta chiamata ciarmu.
Il culto del serpente, nelle religioni antiche e primitive, rappresentava l’essere supremo che ha il potere creativo e distruttivo, il custode del caos o il depositario del sapere profetico. Nella tradizione giudaico-cristiana il serpente incarna il male, il demonio che sotto questa forma tentò Adamo ed Eva invitandoli a mangiare dei frutti dell’albero proibito (Genesi 3,1). In virtù di ciò esso simboleggia la tentazione al male da parte di Satana e tale rimane fino ai nostri giorni.
Qui però è il simbolo dell’episodio della vipera avvenuto a Malta (Atti 28,3), quindi è sempre presente nell’iconografia maltese insieme al fuoco. Rappresenta cioè il simbolo del patrocinio di San Paolo sugli tutti gli animali velenosi, che si riscontra anche in altri santi e nella loro iconografia: San Patrizio, vescovo d’Irlanda; San Domenico di Foligno festeggiato a Cocullo.
Nel nostro territorio l’unica specie velenosa è la vipera comune (Vipera aspis), il cui morso però non è letale, ma è più facile imbattersi nell’innocuo biacco (Coluber viridiflavus carbonarius) dal colore nero. A causa delle enormi dimensioni raggiunte da alcune vecchie femmine (chiamate “senili” o “matrone”), la natrice o biscia dal collare (Natrix natrix), chiamata in dialetto culòfia o culòriva, si pensava capace di sventrare un uomo con un colpo di coda, d’ingoiare bambini oltre ad agnelli e capre. Per il loro allontanamento si invocava l’aiuto di San Paolo o si cercava un ciaràulo.


[ Da “San Paolo il santo dei serpenti”, pag. 14 del bimestrale « I Siracusani » n. 67, Anno XII,  aprile-giugno 2009 ]

giovedì 19 gennaio 2012

Le frecce di Sebastiano

Tutti conoscono il nome e la figura di questo santo grazie anche ai vari dipinti e sculture che lo ritraggono un po’ dovunque. Il suo nome, giunto fino a noi attraverso il latino Sebastianus, deriva dalla radice greca sebastós il cui significato è “degno di venerazione”. Si tratta quindi del corrispondente greco dell’Augustus” dei Romani.
Considerato terzo fra i sette difensori della Chiesa nella catalogazione di Gregorio Magno, compatrono di Roma dopo Pietro e Paolo, Sebastiano, soldato martire di Cristo, figura affascinante nella storia e nelle leggende, ritorna nell’arte con incredibile frequenza. La copiosità delle immagini è alimentata dal terrore per la peste contro cui viene invocato quale protettore. La tipica figura è quella che rappresenta il suo primo martirio, questo santo infatti venne martirizzato due distinte volte ed è perciò detto bimartire. È la più diffusa rappresentazione di nudo artistico che viene conservato nelle chiese. L’immagine di San Sebastiano fu ripresa dai pittori e dagli scultori rinascimentali italiani come pretesto per la rappresentazione virtuosistica del nudo maschile eretto.
Nella più ricorrente iconografia, San Sebastiano è legato, con le mani dietro, ad un albero oppure ad una colonna ed è trafitto da numerose frecce scagliate dai suoi stessi compagni pagani, arcieri come lui, ai suoi piedi può trovarsi posata la sua armatura. Qualche volta appare solo il suo elmo, specie fra i simboli. Sullo sfondo si ha una veduta di Roma dal colle Palatino, luogo presunto del suo martirio. Nei primi periodi era raffigurato come un vecchio, ma successivamente la sua figura assunse le fattezze di un giovane dalla carnagione e dai capelli chiari, fu questo il modulo maggiormente seguito nelle raffigurazioni di questo santo. In numero decisamente inferiore quelle raffiguranti altre scene della vita, spesso appare ai piedi della Vergine insieme a San Rocco.
Nelle immagini di Venezia (e Benevento o Brescia) reca una piccola croce astile (= senza alcuno stile, semplice) secondo i  moduli bizantini celebrativi dei martiri, mentre a Prato porta nelle mani una freccia, comincia ad apparire l’attributo principale simbolo del suo primo martirio, mentre il bastone emblema della sua morte compare raramente.
In alcuni dipinti a sollevarlo dalla sofferenza intervengono gli angeli che recano la corona e la palma del martirio (scena alquanto ricorrente nelle raffigurazioni di martirio di molti santi).
Come per tutti i martiri il primo simbolo è costituito dalla palma che ne rappresenta genericamente il martirio. In associazione o in sostituzione della palma si trovano dei simboli propri (specifici) del tipo di martirio subito dal santo. Troviamo la spada come simbolo della decapitazione nei santi che hanno subito questo tipo di martirio, come San Paolo. In San Sebastiano, come attributo principale, troviamo una o due frecce che indicano l’episodio del primo martirio. Forse non tutti sanno che questo Santo, denunciatosi all’imperatore Diocleziano presso cui prestava sevizio come soldato e da questi condannato ad essere trafitto dalle frecce dei suoi stessi compagni pagani, sopravvisse al martirio in quanto le frecce non lesero alcun organo vitale (fatto questo non sempre rispettato dai pittori). Trovato e curato da una pia donna di nome Irene, ritornò davanti l’imperatore a professare la sua fede e questa volta venne ucciso (i suoi carnefici si assicurarono della sua morte) a  bastonate e buttato nelle fogne.
Le frecce possono essere due come nella chiesa di Palazzolo Acreide oppure una come nel santuario di Melilli.
Un altro elemento che ricorre di frequente è la corona, altro simbolo del martirio. Ne troviamo due, in riferimento al suo duplice martirio, a Melilli mentre ne ricorre una sola a Palazzolo.
Qualche volta fra i simboli appare la colonna, come nell’edicola votiva di Siracusa, altre volte appare il suo cimiero come segno della sua armatura e quindi del suo grado di soldato dell’Impero Romano.
Nessun riferimento simbolico invece al suo secondo martirio, troviamo invece un riferimento alla sua ostinata denuncia di essere un cristiano nella sua particolare protezione dalle malattie dell’organo della parola.
Nella chiesa di Melilli abbiamo due differenti simboli. Il primo si trova nel secondo ordine della facciata e raffigura due corone poste una sopra l’altra, intersecate da una palma e una freccia che s’incrociano. Il secondo simbolo è collocato proprio sopra i due portali laterali della facciata dell’edificio e vi si trovano sempre due corone poste una sopra l’altra, ma ciascuna intersecata da una palma.
Non molto dissimile dal primo simbolo è quello che ricorre negli stendardi della festa di Palazzolo Acreide e nel bassorilievo sotto la cantoria della Chiesa dedicata la Santo. Vi è raffigurata una corona intersecata da una palma e da due frecce che s’incrociano.
Infine va segnalata la presenza nelle statue raffiguranti questo santo, come altri, nei vari comuni della Sicilia la presenza nelle decorazioni o nei corredi di una croce di Malta, del cui probabile significato si è già trattato con Santa Lucia.

[ Da “I simboli religiosi e culturali di San Sebastiano”, pag. 12 del quotidiano « Libertà » n. 106 di giovedì 6 maggio 1999 ]

venerdì 6 gennaio 2012

La festa dei re Magi o della Befana?

“La Befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte…”, così recitava una vecchia poesia. Ma cosa hanno in comune la vecchina più famosa d’Italia e la visita dei re Magi a Gesù? Parecchie cose!
Il termine “epifania” viene dal greco epiphàneia, apparizione, manifestazione della divinità. Nel linguaggio religioso il termine viene usato in genere per indicare la manifestazione divina e, in ambito cristiano, esso indica l’apparizione salvifica del Cristo e di conseguenza la festa liturgica che la celebra. Nel ciclo liturgico cristiano, l’Epifania ricorre il 6 gennaio.
Come festa appare in oriente e già intorno al III sec. se ne hanno notizie. Oggetto della festa è il battesimo del Cristo; nella visione gnostica è questo il momento in cui la divinità si congiunge con l’umanità del Cristo. Nel sec. IV nell’oriente l’Epifania è comunque una grande festa cristiana, accanto alla Pasqua e alla Pentecoste. Essa passa ben presto (fine del sec. IV) in occidente, così come la festa occidentale del Natale nello stesso periodo viene assunta dall’oriente.
Nella sua successiva evoluzione la festa dell’Epifania fa spazio alla commemorazione di altri eventi «teofanici», cioè manifestatori della divinità: non solo il battesimo, ma anche l’adorazione dei Magi e le nozze di Cana, primo segno operato da Gesù.
Anzi in occidente contenuto primario della celebrazione diviene l’adorazione dei Magi, rimanendo invece in secondo piano gli altri due elementi. Nella tradizione bizantina invece il 6 gennaio vengono benedette le acque battesimali con riferimento al battesimo salvifico del Cristo.
Nella tradizione popolare, l’Epifania è stata variamente recepita e trasformata saldandosi con elementi folcloristici preesistenti. In oriente ha rilievo soprattutto la benedizione dell’acqua (fiumi e fonti); in occidente è in primo piano il ricordo dei re Magi e dei doni offerti al Cristo, che rivive sia sotto forma di celebrazione conviviale, sia mediante la distribuzione di strenne. Protagonista di queste distribuzioni è un personaggio femminile, la Befana (locuzione popolare che ha preso il posto del termine Epifania).
È una figura ambivalente, paurosa nell’aspetto fisico, temibile per i suoi poteri, che tuttavia sono esercitati in senso benefico. La Befana è una vecchia coperta di stracci con un fazzolettone in testa che vola a cavallo della sua scopa, proprio come le streghe, da cui forse la figura a tratto origine tanto da confondersi spesso anche con essa: viene infatti rappresentata con cappello tipico e gatto magari nero al seguito. Entra nelle case per lasciare i doni dentro le calze lasciate appese al camino dai bambini. I doni sono però solo per i bambini che sono stati buoni durante il trascorso anno, i cattivi vi troveranno solo del nero carbone.
Origini e significato di questa figura non sono chiari; vanno comunque connessi allo specifico momento in cui essa assume un ruolo dominante, l’inizio dell’anno: la vecchiezza del personaggio sta a significare l’anno trascorso (fantocci della “vecchia” vengono in molti luoghi bruciati) mentre l’uso dei doni assume un significato propiziatorio per l’anno nuovo. Questo aspetto di consegna dei doni la lega ad altre figure dispensatrici di regali che costellano la nostra infanzia: Babbo Natale, Santa Lucia e, nelle regioni del sud-Italia, i morti (per la ricorrenza liturgica dei defunti il 2 novembre).

[ Da “Cosa riceveremo dalla vecchina bellissimi e costosi regali o carbone nero?”, pag. 6 del quotidiano « Libertà » n. 4 di mercoledì 6 gennaio 1999 ]

martedì 3 gennaio 2012

Natale: la festa della nascita

Il Natale è la festa religiosa cristiana che celebra la nascita di Gesù Cristo e questo tutti lo sanno, ma non sono in molti a sapere qual è l’origine di questa diffusissima festa.
L’origine del nome e le radici della festa vanno ricercate nel calendario romano civile, che il 25 dicembre celebrava il solstizio invernale e la nascita del sole invitto. La data precisa della nascita di Gesù non può essere ricostruita sulla base delle fonti primitive: la scelta del giorno allora fu decisa prevalentemente prendendo in considerazione l’esigenza di contrapporre una festa cristiana (la prima testimonianza si rinviene a Roma intorno al 330) alle feste pagane del solstizio d’inverno, che avevano luogo a Roma il 25 dicembre e in Egitto il 6 gennaio (e questa seconda data fu poi propria dell’Epifania, che sorse in oriente e alla fine del sec. IV si trapiantò in occidente: per questo motivo le due feste sono strettamente connesse, quanto all’origine e al significato teologico). Così alla festività pagana del « Natalis Invicti », che celebrava la rinascita del sole e la sua divinità, venne contrapposta la festività cristiana del « dies natalis Domini Nostri Jesu Christi », cioè (traducendo dal latino) il giorno della nascita del Nostro Signore Gesù Cristo.
La pratica di sovrapporre una festività cristiana ad una pagana venne molto utilizzata nei primi secoli del cristianesimo perché permetteva al popolo di conservare quelle che erano le proprie tradizioni, così il passaggio dalla vecchia alla nuova religione diventava meno traumatico.
Nell’uso latino il «dies natalis» non era solo l’anniversario della nascita: designava anche l’anniversario dell’ascesa al trono e della glorificazione dell’imperatore. Il Natale cristiano, su questa scia, si configurò, sin dalle origini, non solo come commemorazione della nascita, ma anche come celebrazione della manifestazione (in greco Epifania) del Verbo tra gli uomini: « è apparsa la gloria del nostro salvatore a tutti gli uomini »  (Tito 2,11), « si è manifestata la benignità e la ‹filantropia› del nostro salvatore » (Tito 3,4).
Con questo termine i Cristiani indicavano anche il giorno della morte di un martire o di un santo, considerata la nascita alla vita nuova, alla vita eterna.
All’inizio della cristianità il nome veniva imposto ai bambini che avevano, appunto l’opportunità di nascere cristiani, quindi, di aspirare alla nascita nella vita eterna. Più semplicemente venne poi imposto ai figli nati il giorno di Natale.
Oggi la ricorrenza ha perso tanta parte del suo antico significato semantico e religioso in parte offuscato, come in molte altre feste, dall’aspetto festivo-consumistico della nostra epoca. Mantiene tuttavia l’antica usanza di festività da trascorrere in famiglia, molte persone in questo periodo si mettono in viaggio per raggiungere le famiglie lontane e trascorrere con loro il Natale. Rimane quindi ancora valido il vecchio detto che recita: “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”.

[ Da “Qual è l’origine della diffusa festa del Santo Natale?”, pag. 8 del quotidiano « Libertà » n. 304 di giovedì 24 dicembre 1998 ]

lunedì 2 gennaio 2012

La leggenda di Babbo Natale


Anche questo articolo viene postato in ritardo, speriamo solo che Babbo Natale, Père Noël per i bambini francesi e Santa Claus per i giovani anglosassoni, non me ne voglia…
Di lui si sa che è un vecchio falegname che abita al Polo Nord, dove fabbrica i giocattoli, aiutato dagli elfi, che la notte di Natale distribuisce ai bambini di tutto il mondo. Secondo un'altra versione aiuta Gesù Bambino nella distribuzione dei doni ai bambini buoni. Viaggia su una slitta magica trainata da quattro paia di renne ed entra nelle case passando per il camino. Pochi però sanno che la sua figura trae origine dal culto di San Nicola vescovo di Mira in Licia (l’odierno villaggio turco di Dembre), meglio noto come San Nicola o Niccolò da Bari, per via del fatto che le sue spoglie, nel 1087, furono messe al sicuro dall’avanzata turca portandole a Bari. Patrono di Russia, Grecia, Puglia, Sicilia e numerose città nonché protettore dei naviganti, il suo culto si diffuse in tutta l’Europa.
La tradizione ha elaborato la figura di San Nicola come quella del taumaturgo per eccellenza. Numerose sono le leggende fiorite intorno alla sua figura: avrebbe risuscitato tre fanciulli, uccisi da un macellaio per farne fettine, salvò marinai dall’annegamento e giovani fanciulle dalla prostituzione, protesse i carcerati innocenti e distribuì il grano agli affamati.
La coincidenza della festa con i giorni pre-natalizi, giorni di doni e di affetti familiari, l’ha resa quasi un gioioso anticipo del Natale per l’infanzia di molti paesi. Nell’Europa orientale e in alcune zone dell’Italia meridionale, il 6 dicembre è accolto come altrove la Befana (6 gennaio) oppure Santa Lucia (13 dicembre): in memoria delle tre « mele » d’oro che tiene sul libro. Le tre figure infatti, oltre ad avere in comune il lavoro di dividere i doni ai bambini che sono stati buoni durante l’anno, ma anche alcune caratteristiche come il metodo di trasporto oppure la vecchiaia ((in alcune zone Santa Lucia è rappresentata come una vecchina anziché come fanciulla) che li associa alla figura dei nonni, tanto cara ai bambini.
Il vecchio vescovo barbuto è passato anche in Francia, Svizzera, Germania e Paesi Bassi, ha alimentato usanze che i tempi non hanno cancellato. A questo punto interviene il fenomeno  della trasformazione del santo vecchio di Mira in un personaggio che, se ha mutato l’abito, non ne ha cambiato lo spirito di benevolenza e di affetto: Babbo Natale.
Il mantello arcivescovile ha preso l’aspetto di un robone rosso orlato di pelliccia, la mitra è diventata cappuccio a punta, le tre « mele » d’oro che tiene sul libro con la gerla colma di doni sulle spalle, ma la venerabile barba bianca delle prime raffigurazioni bizantine, l’aura creata da una leggenda antica e incantevole rimangono a dispetto dei secoli. Questa identificazione è dovuta soprattutto al fatto che San Nicola era particolarmente generoso specialmente con i bisognosi e i fanciulli. Nei paesi nordici e anglosassoni viene chiamato Santa Claus alterazione del nome latino Sanctus Nicolaus. Il suo culto dai paesi nordici è stato esportato negli U.S.A. da dove, legato alla febbre del consumismo, è stato poi reintrodotto con il nuovo nome (oggi a noi più familiare) di Babbo Natale in Italia, dove il culto col vecchio nome era ormai quasi del tutto scomparso o sovrapponendovisi dove ancora sopravviveva.

[ Da “Arriva Babbo Natale: qual è la sua storia”, pag. 7 del quotidiano « Libertà » n. 288 di sabato 5 dicembre 1998 ]